ROMA – Anche se c’è il copyright, si può scaricare lo stesso. Purché non si faccia a fini di lucro. Lo ha stabilito la III sezione penale Cassazione con una sentenza destinata a far discutere (è la numero 149/2007) con cui ha accolto il ricorso presentato da due studenti torinesi, condannati in appello ad una pena detentiva, sostituita da un’ammenda, per avere “duplicato abusivamente e distribuito” programmi illecitamente duplicati, giochi per psx, video cd e film, “immagazzinandoli” su un server del tipo Ftp (File transfer protocol) “dal quale potevano essere scaricati da utenti abilitati all’accesso tramite un codice identificativo e relativa password”.
Una sentenza che fa discutere, anche se si riferisce a un caso precedente alla legge del 2004 sul diritto d’autore. La cosiddetta legge Urbani rende invece lo scaricamento di file protetti da copyright un diritto amministrativo e la loro condivisione un reato penale.
Ad uno dei due la sentenza della Corte d’appello del capoluogo piemontese datata 29 marzo 2005 (ora annullata “senza rinvio” dalla Suprema Corte) imputava anche il possesso, presso la propria abitazione, di software destinato “a consentire o facilitare la rimozione dei dispositivi di protezione applicati a programmi per pc”. Di fatto, i due studenti, avvalendosi di un computer in funzione presso l’associazione studentesca del Politecnico di Torino, avevano creato, gestito e curato la manutenzione di un archivio on line di dati e programmi, raggiungibile da un normale indirizzo ip, dal quale una “community” di utenti era libera di attingere in cambio, a sua volta, del rilascio di materiale informatico.
I reati contestati ai due ricorrenti erano quelli previsti dagli articoli 171 bis e 171 ter della legge sul diritto d’autore, la numero 633/41, sottoposta a tutta una serie di modifiche in anni recenti: nell’ultima formulazione, il primo prevede “la punibilità da sei mesi a tre anni, di chiunque abusivamente duplica, per trarne profitto, programmi per elaboratore o ai medesimi fini importa, distribuisce, vende, detiene a scopo commerciale o imprenditoriale o concede in locazione programmi contenuti in supporti non contrassegnati dalla Siae”; il secondo punisce con la reclusione da uno a quattro anni chi “riproduce, duplica, trasmette o diffonde abusivamente, vende o pone altrimenti in commercio, cede a qualsiasi titolo o importa abusivamente oltre cinquanta copie o esemplari di opere tutelate dal diritto d’autore e da diritti connessi”.
Ebbene, per la Cassazione in primo luogo è da escludere per i due studenti la configurabilità del reato di duplicazione abusiva, attribuibile non a chi in origine aveva effettuato il download, ma a chi semmai si era salvato il programma dal server per poi farne delle copie. Ma soprattutto “deve essere escluso, nel caso in esame, che la condotta degli autori della violazione sia stata determinata da fini di lucro, emergendo dall’accertamento di merito che gli imputati non avevano tratto alcun vantaggio economico dalla predisposizione del server Ftp”.
Per “fine di lucro”, infatti, “deve intendersi un fine di guadagno economicamente apprezzabile o di incremento patrimoniale da parte dell’autore del fatto, che non può identificarsi con un qualsiasi vantaggio di genere; né l’incremento patrimoniale può identificarsi con il mero risparmio di spesa derivante dall’uso di copie non autorizzate di programmi o altre opere dell’ingegno, al di fuori dello svolgimento di un’attività economica da parte dell’autore del fatto, anche se di diversa natura, che connoti l’abuso”.
Anche con riferimento alla detenzione di un programma destinato a rimuovere o ad aggirare dispositivi di protezione “non emerge – avvertono i giudici – dall’accertamento di merito la finalità lucrativa cui sarebbe stata destinata la detenzione e, tanto meno, un eventuale fine di commercio della stessa”.